22 febbraio 2015

Un premier che marcia spedito verso l’800




di  Michele Prospero*

È evi­dente che, con i decreti attua­tivi della fami­ge­rata carta di espro­pria­zione dei diritti deno­mi­nato Jobs Act, la Costi­tu­zione non è più la stessa. La prima parte, quella dei valori fon­da­men­tali, anche se non ancora toc­cata in modo espli­cito, è inde­bo­lita dalla legi­sla­zione più recente, vera pistola pun­tata con­tro il resi­duale diritto del lavoro. Frutto della seconda costi­tu­zio­na­liz­za­zione, lo Sta­tuto del 1970 era il com­pen­dio di una con­giun­tura sto­rica irri­pe­ti­bile che pre­sen­tava con­di­zioni poli­ti­che più favo­re­voli al mondo del lavoro. L’articolo 18 era in fondo il sim­bolo della rela­tiva potenza accu­mu­lata dal lavoro, rispetto al domi­nio asso­luto del capi­tale, e la dimo­stra­zione dei frutti posi­tivi sca­tu­riti dalla con­giun­zione di con­flitto sociale e grande mano­vra politica.

Ad essere col­pito dalla furia restau­ra­trice del governo Renzi è anzi­tutto il potere del lavoro e di con­se­guenza i diritti dei sin­goli dipen­denti si spen­gono come degli astratti postu­lati morali. Il segno di classe della riforma strut­tu­rale varata dal governo l’ha colto bene l’Ocse che, in uno sper­ti­cato elo­gio delle misure ren­ziane, le ha san­ti­fi­cate come l’eden resu­sci­tato della bella volontà di potenza dell’impresa. Nel docu­mento l’Ocse spiega le ragioni del suo inna­mo­ra­mento totale: «accre­scendo la pre­ve­di­bi­lità la norma riduce i costi reali dei licen­zia­menti, anche quando sono giu­di­cati ille­git­timi dai tri­bu­nali e inco­rag­gia le imprese». Sono felici sol­tanto per­ché il governo ha reso meno costosa la facoltà licenziare.

Quest’assalto nor­ma­tivo alla civiltà del lavoro, con la ridu­zione del costo del licen­zia­mento, secondo l’Ocse, è una divina bene­di­zione che accre­scerà la pro­dut­ti­vità per­ché, eli­mi­nando del tutto la pos­si­bi­lità del rein­te­gro per l’esclusione dall’impiego per motivi ille­git­timi, e ridu­cendo anche l’importo dell’indennizzo dovuto a chi viene get­tato sul lastrico, il Jobs Act sol­le­cita il risve­glio imme­diato degli spi­riti ani­mali del capi­ta­li­smo. Senza la sbri­ga­tiva libertà di licen­ziare, il capi­tale non rie­sce più a inve­stire, a inno­vare, a com­pe­tere. E quindi, il piano della nichi­li­stica espro­pria­zione del lavoro, con­ti­nua ad essere per­se­guito come la variante più allet­tante per rilan­ciare l’accumulazione in un paese che si accasa defi­ni­ti­va­mente nelle peri­fe­rie del capi­ta­li­smo glo­bale e che per il suo de te fabula nar­ra­tur guarda ormai all’Albania.
La filo­so­fia del ren­zi­smo si com­pie nel segno di una inte­grale deco­sti­tu­zio­na­liz­za­zione del lavoro. E la sua genuina essenza ideo­lo­gica è con­te­nuta nella cele­bre for­mula sulla libertà dell’imprenditore di licen­ziare come segno di una grande inno­va­zione desti­nata a fare epoca. La nuova legi­sla­zione, in effetti, è il cuore delle stra­volte riforme post-moderne, quelle capo­volte costru­zioni giu­ri­di­che che sop­pri­mono tutele e pic­cole libertà dal biso­gno e asse­gnano pro­prio al sog­getto già eco­no­mi­ca­mente più forte il diritto di schiac­ciare il con­traente più debole della rela­zione lavorativa.

Le con­di­zioni sociali della moder­nità sono basate gene­ti­ca­mente sul dif­fe­ren­ziale di potere tra capi­tale e lavoro. E il diritto del lavoro, nato dallo scon­tro poli­tico della società di massa, cer­cava di cor­reg­gere con gli inter­venti della legi­sla­zione gli squi­li­bri sociali più macro­sco­pici con­fe­rendo poteri cor­ret­tivi al lavoro come potenza sociale col­let­tiva. Ora il diritto muta di segno. E’ costruito il diritto del più forte, cioè è scol­pito anche sulla norma il potere legale san­zio­na­to­rio del capi­tale sul lavoro. Quando all’impresa si con­cede il diritto di licen­ziare il dipen­dente anche per un solo giorno ingiu­sti­fi­cato di assenza, le si con­se­gna un’arma di coer­ci­zione spro­por­zio­nata rispetto all’entità dell’illecito. E’ la pura forza dell’avere che suc­chia l’essere della per­sona che lavora, nel silen­zio della cor­nice pub­blica. Ma Rous­seau spie­gava che il diritto del più forte non è mai diritto. E quello scritto da Renzi è infatti la pura e sem­plice san­zione uffi­ciale e for­male del domi­nio di fatto dell’impresa sulla forza lavoro ridotta a varia­bile inanimata.
Ad domi­nio del capi­tale, scritto già a chiare let­tere nelle ogget­tive leggi dell’economia e con­fer­mato nelle ano­nime rego­la­rità impo­ste dalla divi­sione sociale del lavoro, si aggiunge anche la norma di stampo clas­si­sta che anni­chi­li­sce la rela­tiva auto­no­mia con­qui­stata nel Nove­cento dalla legi­sla­zione pub­blica nel cor­reg­gere le asim­me­trie del rap­porto sociale con norme det­tate dal senso civile e morale di un’epoca demo­cra­tica. Il giu­dice deve ammai­nare gli stru­menti roman­tici con i quali inse­guiva il mirag­gio della costi­tu­zio­na­liz­za­zione dei rap­porti di lavoro. Seb­bene con stru­menti coer­ci­tivi sca­ri­chi, per­ché privi di san­zione effet­tiva verso l’impresa ina­dem­piente, il giu­dice del lavoro aveva intro­dotto la legge e il con­tratto a più stretto col­le­ga­mento con l’essere del lavo­ra­tore. La bocca del giu­dice, nell’accertare la ade­guata pro­por­zione tra fatto e san­zione, ora si chiude dinanzi alla sover­chiante potenza dell’avere, del capi­tale, che fa ciò che crede della forza lavoro, con il modico prezzo di una indennità.
Si dise­gna una indi­vi­dua­liz­za­zione cre­scente delle rela­zioni eco­no­mi­che impo­nendo un secco rap­porto a due, da una parte sta il potere d’impresa che regna incon­tra­stato e dall’altra il lavoro, sog­getto ancor più pre­ca­rio appeso alla deci­sione d’azienda sui tempi, sui costi delle ristrut­tu­ra­zioni, sull’opportunità di un demen­sio­na­mento di ruolo nel posto di lavoro. Lo scam­bio inde­cente tra un (solo) nomi­na­tivo con­tratto a tempo inde­ter­mi­nato e un effet­tivo potere di licen­ziare senza giu­sta causa cam­bia in pro­fon­dità i rap­porti di forza den­tro i luo­ghi di lavoro. Il sin­da­cato è invi­tato a uscire dalla fab­brica o dall’ufficio, non essendo più rile­vante il potere delle orga­niz­za­zioni nel trat­tare le con­di­zioni delle ristrut­tu­ra­zioni, degli esu­beri, dei tempi, delle mobi­lità, dei licen­zia­menti col­let­tivi.

Lo spie­gava bene Spi­noza: quando un sog­getto cede un potere, non ha più le chiavi per riven­di­care i suoi diritti. Non esi­stono infatti diritti frui­bili senza una potenza col­let­tiva che li sor­regge. E l’attacco del governo è, con qual­che per­versa siste­ma­ti­cità, indi­riz­zato con­tro le con­di­zioni (sociali e sin­da­cali) della potenza del lavoro. Strat­to­nato dalle stra­te­gie d’impresa che lo ren­de­vano una varia­bile sem­pre più pre­ca­ria, il lavoro viene ora reso liquido anche dalla norma giu­ri­dica. Il pub­blico si ada­gia alle esi­genze fun­zio­nali dell’impresa pri­vata e costrui­sce un diritto con moduli, tempi, risar­ci­menti mone­tari richie­sti dal capi­tale. Con il suo turbo governo Renzi pro­cede a passi di gam­bero verso l’Ottocento. Nella sua fab­brica entra solo il car­tello che intima alla mano­do­pera di per­dere ogni spe­ranza di riscatto e di non distur­bare il padrone che dà l’opportunità di lavoro, e quindi va santificato.
Nel regime giu­ri­dico duale, cioè con la com­pe­ti­zione inne­stata dalla norma dise­guale che dif­fe­ren­zia tra vec­chi e nuovi assunti ser­ven­dosi di pro­fili discri­mi­na­tori, l’impresa spera di otte­nere mag­giori poten­ziali di ricatto sul lavoro diviso e sotto minac­cia in virtù di nuovi poteri dispo­si­tivi e san­zio­na­tori. Con il suo Pier delle Vigne, la coman­dante dei vigili urbani di Firenze nomi­nata sul campo capo dell’ufficio legi­sla­tivo di palazzo Chigi, Renzi ha dav­vero posto fine al costi­tu­zio­na­li­smo della repub­blica. Già sepolti i suoi sog­getti poli­tici (i par­titi ideo­lo­gici di massa), ora sono spenti anche i suoi sog­getti sociali, il lavoro come sovrano della costi­tu­zione eco­no­mica. E’ comin­ciata un’altra epoca nel segno della destra eco­no­mica, cioè con lo sfac­ciato potere dell’impresa, con la sua giu­ri­sdi­zione pri­vata spie­tata e senza con­tro­par­tite. Il lavoro è scon­fitto, ma non vinto.

·         *  da il manifesto,  21 febbraio 2015

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