2 gennaio 2015

Conversione ecologica e comunità



Conversione ecologica significa riconversione strutturale della produzione per ridurre l’aggressione alle risorse della natura e lo sfruttamento di uomini e donne, ma anche conversione personale del nostro stile di vita. Per la prima occorre la più larga partecipazione dal basso delle comunità locali e sperimentare nuove produzioni: per la diffusione di fonti energetiche rinnovabili, per promuovere l’efficienza energetica, per favorire l’utilizzo di veicoli in forma condivisa, sistemi di riciclo, coltivazioni ecologiche. Per la conversione personale, invece, serve prima di tutto condivisione: degli acquisti, della cura (dei bambini, degli anziani, dei malati), ma anche condivisione e scambio di beni e saperi. La conversione ecologica è in ogni caso un processo di “riterritorializzazione”, perché la “riterritorializzazione”, spiega Guido Viale, è probabilmente una delle poche risposte adeguate al problema centrale posto dalla globalizzazione liberista: la competizione sempre più serrata.


 di Guido Viale*


Il termine “conversione ecologica” è stato introdotto quasi trent’anni fa da Alex Langer per sintetizzare il percorso necessario per ricondurre l’attività e la convivenza umana entro i limiti della sostenibilità sociale e ambientale. Il termine allude alla duplice dimensione di questo passaggio: da un lato, la riconversione strutturale dell’apparato produttivo per ridurre l’aggressione alle risorse della natura (produrre meno e meglio; utilizzare meno materiali; usare più a lungo quello che si è prodotto e scartarlo meno; recuperare tutto quello che si è scartato) e, soprattutto, per ridurre lo sfruttamento degli uomini e delle donne che vivono e lavorano su questa Terra da parte di altri membri del genere umano; dall’altro lato, quel passaggio comporta la conversione personale del nostro stile di vita, attraverso una riduzione e una qualificazione ecologica dei nostri consumi e un miglioramento dei nostri rapporti con il prossimo, gettando un ponte (Alex amava molto questa metafora) verso chi ci è estraneo, in competizione con noi o nemico. Associarsi per effettuare insieme degli acquisti, per promuovere insieme dei servizi o per risparmiare, è già oggi possibile; o è comunque possibile inserire questo obiettivo in una piattaforma rivendicativa, che molte organizzazioni, anche di natura molto diversa tra loro, comprese quelle sindacali, potrebbero appoggiare.


L’esempio più chiaro di questa condivisione sono per ora i Gas (gruppi di acquisto solidale): un certo numero di famiglie si associa per eseguire insieme gli acquisti, soprattutto, ma non solo, in campo alimentare. Ciascuno continua a comprare e a mangiare quello che vuole (non c’è alcun “collettivismo”), ma gli acquisti si programmano e si effettuano insieme, direttamente dal produttore. In questo modo si salta l’intermediazione commerciale e i relativi ricarichi (insieme ad un sacco di imballaggi inutili, inquinanti e di pubblicità); si rompe l’isolamento proprio della società in cui viviamo. Inoltre ci si può così accordare per condividere molte altre cose, per esempio: la cura di bambini, anziani e malati, la riparazione di apparecchiature e impianti guasti, lo scambio di abiti e beni dismessi, la condivisione di attrezzi e know-how per il “fai da te”, lezioni, ecc.. Si può dire che ci si informa e ci si forma insieme, perché per comprare cose sane e beni utili bisogna intendersi sia su come sono fatti che di come vengono prodotti. Infine, si dà una mano ai produttori che vogliono rendere sostenibile la loro azienda, favorendo la creazione di mercati alternativi: per esempio, gli agricoltori che vogliono passare all’agricoltura biologica e a chilometri zero o le imprese alimentari che adottano metodi di lavorazione che non avvelenano il cibo.

Ovviamente tutto ciò non basta. Per perseguire e raggiungere la sostenibilità ambientale occorre imporre un cambio di rotta generale. Occorre imporre ai governi, sia a livello locale che nazionale, una vera politica industriale: cioè dei piani che orientino l’attività economica verso prodotti, tecnologie, sistemi di produzione e un’organizzazione del lavoro sostenibili. Politiche, dunque, che entrino nel merito del “che cosa” produrre (e che cosa non produrre), di come produrlo, con che cosa, per chi e anche dove.


Mettere al centro della politica industriale la conversione ecologica di tutto il sistema economico, o per lo meno delle sue strutture portanti, oggi si può proporre e realizzare solo promuovendo la più larga partecipazione dal basso della popolazione coinvolta: sia di quella che vive del lavoro nelle o delle imprese da convertire, sia di quella che subisce l’impatto, cioè i danni ambientali e le trasformazioni sociali provocati da quelle aziende. Ciò vuol dire che una politica industriale sostenibile può nascere solo nel quadro di una democrazia partecipata, che abbia al suo centro il lavoro e l’organizzazione dei lavoratori interessati.

Insieme al lavoro, però, essa deve promuovere anche l’impegno e la presenza organizzata di una comunità più larga, delle sue amministrazioni locali, di altre imprese che operano sullo stesso territorio, dei saperi diffusi tra i membri di tutta la comunità; per poi allargare il coinvolgimento ad altre aziende e ad altre comunità, e con esse preparare e sostenere programmi e rivendicazioni di valenza nazionale o europea. Nelle aziende colpite dalla crisi economica e occupazionale la conversione ecologica è l’unica alternativa praticabile (leggi anche Ripensare la società dal lavoro. Alcune proposte, di Alberto Castagnola, ndr), poiché esse non torneranno mai più ad aprire e a riassumere per produrre le cose di un tempo. Non hanno più mercato. Per salvare l’occupazione, riaprire le assunzioni, rendere accettabile l’ambiente di lavoro, valorizzare l’esperienza e le conoscenze del personale tecnico e operaio, ma anche una parte consistente degli impianti e delle attrezzature esistenti, occorre passare a nuove produzioni. Tra queste bisogna scegliere quelle che hanno un futuro e, quindi, anche un mercato sicuro; che sono quelle che si renderanno sempre più indispensabili mano a mano che gli effetti della crisi ambientale si faranno sentire su tutto il pianeta: impianti per lo sfruttamento delle fonti energetiche rinnovabili; soluzioni per promuovere l’efficienza energetica; veicoli da usare in forma condivisa e sistemi di governo della mobilità e del trasporto sostenibili; sistemi di riciclo totale di scarti e rifiuti; progetti, know-how e strumenti per la salvaguardia e la rinaturalizzazione del territorio; sistemi di coltivazione ecologici a elevata intensità di lavoro qualificato e di tecnologia; progetti per il recupero e l’efficienza degli edifici obsoleti o dismessi; laboratori e capacità tecniche per prolungare la vita dei prodotti con la manutenzione e la riparazione; ecc..


Per avviare queste nuove produzioni occorre garantire loro un mercato e questo può essere fatto solo coinvolgendo una comunità, o un insieme più ampio possibile di comunità, e i relativi governi locali: Comuni, Province, Comunità montane, Regioni. Oggi la stragrande maggioranza di questi enti non ci sente da questo orecchio: “non ci sono i soldi”, dicono. Ma molte cose si possono cominciare a fare, o per lo meno a discutere e definire, a costo zero. Mentre su altre si può avviare la ricerca o avanzare la richiesta, o una vera e propria rivendicazione, di un finanziamento; ma solo a condizione che siano chiare e definite le cose che si vogliono fare. A quel punto si può aprire una vertenza: sia nei confronti dei governi locali, che, eventualmente, e con il loro appoggio, nei confronti dei governi regionali, di quello nazionale e dell’Unione europea, a seconda della portata della rivendicazione. Senza un progetto definito, però, nessuna di queste cose può andare avanti. Per esempio, le energie rinnovabili o l’efficienza energetica sul lungo periodo si ripagano da sé, perché fanno risparmiare denaro e combustibili fossili, ma per diffonderle in forme produttive e sensate ci vogliono programmi a livello territoriale, ricognizioni sul territorio e sugli edifici, progetti, tecnici, imprese di installazione e manutenzione; e poi, anche imprese per la produzione degli impianti, di materiali e attrezzature per l’efficienza energetica.

Così, con il coinvolgimento di un certo numero di enti locali, si può cercare di mettere in contatto i potenziali produttori (cioè le aziende che hanno bisogno di riconvertire le loro produzioni) con i potenziali utenti di questo intervento (enti pubblici come Comuni, ospedali, Asl, imprese, ma anche singoli privati, soprattutto se associati. Qui l’esempio dei Gas – il rapporto diretto tra produttore e consumatore – calza a pennello: si tratta di riproporlo su una scala più allargata in campo energetico, nel campo dell’edilizia e della manutenzione del territorio, nel settore agroalimentare o nel campo della mobilità. Se poi a guidare le nuove aziende sarà un imprenditore disposto a farlo sotto il controllo della comunità oppure se ne dovrà promuovere una gestione in forme associative o cooperative, è cosa da decidere in corso d’opera.


Certo, per promuovere una conversione ecologica su larga scala ci vogliono “forze fresche” anche in campo imprenditoriale, perché molti degli attuali manager e imprenditori sono indissolubilmente legati a un modo di fare impresa che non accetta interferenze esterne. Queste forze, però, ci sono e bisogna farle emergere: all’interno delle aziende, nell’associazionismo e nell’imprenditoria sociale, nel movimento cooperativo. L’importante è mantenere, o ricondurre a un ambito territoriale più ristretto rispetto a quello creato dalla globalizzazione, i rapporti tra le diverse fasi di un ciclo produttivo e tra i diversi stadi di una filiera, accrescendo così le possibilità di un controllo dal basso sulle scelte economiche. In una parola, la democratizzazione dell’economia. La conversione ecologica è dunque innanzitutto un processo di “riterritorializzazione” dei rapporti economici attraverso relazioni quanto più dirette possibili tra produttori e consumatori, in un regime di totale trasparenza, per consentire un controllo pubblico delle transazioni in corso.


La “riterritorializzazione” è comunque un obiettivo sempre relativo e mai assoluto, la cui realizzazione può essere concepita solo in progress, come processo. Inoltre, essa riguarda esclusivamente il ciclo di vita dei beni materiali e non quello dell’informazione e dei saperi, la cui circolazione deve invece essere sempre più libera e intensa su tutto il pianeta; riguarda cioè “gli atomi” e non i “bit”. La “riterritorializzazione” rappresenta l’unica risposta adeguata al problema centrale posto dalla globalizzazione liberista che è la competizione sempre più serrata che si svolge a livello planetario e che tende ad allineare ai livelli più bassi i livelli salariali e quelli di protezione sociale e di protezione ambientale.


   * Fonte comune.info. Articolo pubblicato anche su Granello di sabbia, mensile di Attac Italia, il cui ultimo numero (qui scaricabile) è dedicato ai temi della conversione ecologica.                                    1 gennaio 2015

1 commento:

  1. Anonimo23:29

    Non riesco a capire come Viale che apprezzo per quanto riguarda le sue posizioni ecologiche non riesca a capire che non esistono "politiche industriali" senza ripristinare la I parte titolo terzo rapporti economici della Costituzione che prevede la regia dello stato sull'economia tanto pubblica tanto privata - come modello economico misto ... quello che con leggi dell'ultimo trentennio e trattai europei hanno sostituito con modello economico neoliberista. Poi ridefiniti i trattati europei in senso modello economico misto ripristinata la costituzione italiana ... tutto il resto previsto sui territori da Viale ci stanno a fagiuolo. Luigi Fasce - Comitato L'Altra Liguria Genova - www.circolocalogerocapitini.it

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